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Di richiedenti asilo e rifugiati si parla molto ultimamente, spesso evocando in maniera più o meno sottile gli scenari delle guerre lontane e della miseria, ma anche dell’invasione, della minaccia terroristica e della contaminazione. Ma chi sono costoro? Da cosa fuggono, cosa hanno subìto e cosa sperano per il loro futuro? E quale contesto migliore per esplorare la loro esperienza se non quello delle strutture di accoglienza in cui passo per passo si ricostruisce, nella quotidianità della convivenza, il proprio progetto di vita, tra ricordi, scoperte, conflitti, nostalgia, rabbia, aspirazioni, resilienze e ferite dell’anima? L’incontro con l’altro è sempre esperienza radicale rischiosa, perché confronto tra due esperienze umane irripetibili nella loro singolarità, appartenenti magari a orizzonti culturali diversi, eppure ambedue accomunate dalla ineludibile fatica di vivere, dal suo interrotto patire.
Nella vita di comunità, qualunque essa sia, comprese le comunità di richiedenti asilo, ogni atto, ogni momento della giornata, ogni comportamento che coinvolge più individui partecipa di una serie di codici di comportamento, verbali e non verbali, mediante i quali si trasmettono contenuti di ordine e grado. Parole, gesti, odori, sensazioni tattili, percezioni visive e acustiche costituiscono un’intricata rete di eventi comunicativi che rendono possibile la vita nei circuiti dell’accoglienza. Isolare uno soltanto di tali codici, quello spirituale che conduce alla interiorità e sottoporlo a osservazione, o meglio a pratica di ascolto con l’altro, ha costituito l’orientamento che ha guidato questa riflessione. Ascoltare significa, in questo caso, mettersi in condizioni di decodificare lo stato d’animo dell’altro.  Questo scritto, pertanto, nasce a seguito della istanza di un beneficiario di potersi recare in chiesa per affidare le proprie preghiere alla madre del Cristo. Non capita spesso che un rifugiato proveniente dai paesi sub sahariani si presentasse con una richiesta simile. Ma in questo caso il bisogno va a inserirsi in quel comune filo rosso a cui tutti siamo legati quando affrontiamo fasi dolorosi della vita cui diamo il nome di fragilità. Inizia così il cammino misterioso che porta all’interiorità, agli abissi dell’interiorità, nei quali guardare e dai quali risalire alla comprensione di quello che noi siamo e di quello che sono gli altri. L’analisi di tale comportamento, da parte degli operatori dell’accoglienza, può investire vari piani, che vanno dal cognitivo, cioè il riconoscimento del tipo di male (se naturale o spirituale) a quello culturale, cioè la gestione dell’evento di spaesamento dovuto all’arrivo imminente da parte dell’individuo “migrante” e del gruppo che gli sta intorno. Le parole di sant’Agostino definiscono mirabilmente questo cammino quando ci dicono di ‘rientrare in noi stessi, di non uscire, perché l’uomo interiore abita la verità’. Avvicinarsi al mistero del dolore e della tristezza, della gioia e della speranza riposta nella fede, delle fragilità, che sono in noi, di una persona che ha lasciato il paese di origine, la propria famiglia, i propri affetti significa fondare relazioni umane e gentili che ci fanno uscire dai confini della nostra soggettività, della nostra identità, della nostra solitudine, aprendoci invece alla intersoggettività, all’alterità e all’accoglienza. Le emozioni fanno parte della vita, della vita di ciascuno di noi, e di esse non possiamo fare a meno, benchè ci siano oggi psicologie e filosofie che ci dicono come sarebbe meglio, molto meglio, vivere senza emozioni, o almeno tacitarle, vivendo come se non ci fossero, affidandoci esclusivamente alla ragione, alla ragione dei calcoli divisivi e individualisti, dimenticando quanto scriveva Leopardi: «solo quando la ragione si converte in passione ci consente di cogliere il senso della nostra vita o delle nostre azioni, e delle azioni altrui».  Ed è proprio a questa passione verso l’altro da noi che, in quanto operatori dell’accoglienza, vogliamo raccontarvi questo avvenimento carico di simbologia, non solo cristiana ma anche di resistenza e di attaccamento alla vita. Usciti dalla struttura, appena giunti davanti i gradoni della chiesa di Girifalco, Santa Maria delle Nevi, oltrepassata la porta, il beneficiario di origine maliana, si inginocchia ed entra, tra le due fila di scanni, con un’andatura dondolante a destra e a sinistra, dovuta all’alternanza del movimento delle ginocchia, la poche donne giunte lì per il vespro osservano con stupore, l’intenso sentimento devozionale di chi vivendo nella storia, ha alle sue spalle un tormento vecchio quanto il mondo. Noi che lo osserviamo pensiamo allo sforzo e alla forza d’animo di chi incontra la profondità della preghiera. La figura del ragazzo inginocchiato, proveniente da una terra che ha i colori delle fiabe, è di forte presa emotiva perché riporta alla natività, le ginocchia sorreggono il peso di un “corpo-mondo”, tramite l’attualità di un rito, in quella scena di un lontano passato dell’umanità. Riflettiamo sul fatto che l’esperienza della migrazione, dello spaesamento, di approdare in un paese altro, possa aiutare le anime erranti a trovare un varco che consente loro di attraversare un’esperienza così dura e irta di ostacoli; la preghiera non tanto come appello indirizzato verso l’Altro, come richiesta di aiuto e di consolazione, come supplica, ma come consegna di se stessi. È un punto sensibile, quello che tocca il nostro destino, il decidersi di consegnarsi alla propria storia, perché solo in questa consegna possiamo riscriverla in modo unico accogliendo l’alterità; assumere la nostra condizione di uomini “migranti”, senza fissa dimora, al cospetto con quello che più siamo. È attraverso una riflessività rivolta all’essere situato nello spazio fisico, tra le relazioni materiali, che abbiamo cercato di elaborare una conoscenza del mondo del migrante, e anche una conoscenza sulle modalità con le quali gli stessi vivono e operano all’interno della struttura. Il sacro, dunque, diventa il prodotto dell’immaginazione del richiedente. Usciti dalla chiesa ci riferì che si abbandona a questi momenti quando è solo, a fine giornata, o di notte, quando rimane sveglio; essi rappresentano una fonte alla quale attingere per lenire il dolore dovuto alla sua condizione. Questi gesti rappresentano un esempio importantissimo, che si oppone alla retorica della chiusura, nei quali emergono chiaramente i reali rapporti tra il potere subito, inteso come scissione dei legami con l’esterno e la comunità di origine, e i desideri e le emozioni intimi dell’immigrato, all’interno della società di arrivo. Sono frammenti di una storia di vita che consente di cogliere o almeno di intuire cosa sia la migrazione e quale grande dolore ci sia in essa. Chi si occupa di accoglienza non può escludere nel suo lavoro e nella ricerca sui modi di essere della interiorità, della soggettività, delle emozioni, delle speranze e delle aspirazioni i significati che sgorgano in gesti come questo. Non ci sono confini alle riflessioni intime sulla solitudine. Nei semplici gesti del richiedente asilo essa emerge con grande impeto, e si fa ancor più dolorosa quando la rivive in quelle particolari settimane di avvicinamento alla Pasqua. Abbiamo riflettuto molto se fosse moralmente giusto raccontare questa storia, riportarla, cercare di dare un’interpretazione che forse si discostava da quella intesa dal beneficiario. D’altra parte, recepimmo, dal nostro backgroud, che gli operatori per mestiere devono anche raccontare le storie di vita. Gli accadimenti quotidiani, in quei contesti nei quali l’esperienza della sofferenza della migrazione è radicata nei corpi individuali, significa tra le altre cose, sapersi muovere in maniera tattica di fronte a certe situazioni, cercando strade impreviste, rimodulando i propri obiettivi, scegliendo di assumere un atteggiamento cauto e rispettoso, imparando ad aspettare e a rimandare. L’incontro con storie che spesso hanno cicatrici causate dal “dolore ostinato” e dall’ “angoscia territoriale” dallo sradicamento che ne costituisce il tratto più drammatico e nostalgico, un dolore che plasma radicalmente la vita dei beneficiari e che può essere individuato nel desiderio di ritornare a vivere in un luogo abituale. La nostalgia è proprio questo. L’insorgere di un rimorso che insinua nel presente luoghi, volti, sguardi che si aveva la pretesa di aver spodestato e che invece ritornano, turbando il sentimento di sentirsi a “casa propria” nel nuovo Paese. La nostalgia, dunque, permette di riconoscere significati nuovi e contraddittori nell’esperienza di sofferenza dell’immigrato. Essa può esprimere una critica nei confronti del nuovo contesto, mostrandosi talvolta nelle resistenze all’integrazione o nella difficoltà di apprenderne una lingua. Prima era il Paese di origine a essere intollerabile, ora è quest’ultimo a essere idealizzato; e il Paese ospite, pensato un tempo come una risposta ai propri bisogni e ai propri progetti, si rivela sempre più una regione di incertezze, di prove, dove solo il successo conta ed è cancellata l’idea del ritorno. Questi passaggi non si pretendono generalizzabili. Molti riescono a trovare al contrario un equilibrio felice, e grazie alle nuove opportunità economiche, sociali o affettive, imprimono alla nostalgia, quando presente, una direzione diversa, lontana dalle inquietudini descritte. Entrare nel mondo dell’accoglienza, quindi, non significa solo apprenderne il linguaggio e le nozioni di base, bensì conoscere anche quelle pratiche attraverso cui gli operatori affrontano e formulano la realtà in un’ottica specificatamente di competenza e professionalità, tra esse spiccano modi specializzati di vedere, di scrivere e di parlare. Crediamo che la storia che abbiamo qui esposto, ci consenta di evincere che lavorare sulle narrazioni e sulle pratiche del corpo permetta di scoprire patrimoni di conoscenze diffuse tra i beneficiari che non hanno dei corrispettivi nei saperi formalizzati, e di rimettere soprattutto in gioco i rapporti di buone pratiche di accoglienza nei contesti in cui si fa accoglienza. Osservare e comprendere permette di ragionare dall’interno sui modi in cui le persone danno significato a ciò che fanno, al mondo in cui vivono, alle relazioni che le legano. Lasciarsi raccontare una storia attraverso il corpo porta, inoltre, a rivolgere particolare attenzione alle situazioni costruite attraverso la co-presenza sensibile dei partecipanti all’azione sociale. Stare negli scambi comunicativi, e interrogarsi su quanto accade, significa esplorare dimensioni che, nella pratica situata passano attraverso le emozioni e le ferite dell’abbandono, prima ancora di divenire pienamente comprensibili nel linguaggio verbale. Per questo abbiamo deciso di scrivere, perché attraverso questa scena, che rievoca un gesto sacro, si parla direttamente all’uomo, tocca l’essenziale della sua condizione, la sua fragilità, la sua mancanza, i suoi tormenti.

Melito Francesco – Antropologo Educatore

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