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Solo tre parole che analizzate grammaticalmente si traducono in un avverbio di tempo dopo una preposizione semplice di un pronome personale noi.

Brevi, semplici, concise, dal significato chiaro, preciso, inequivocabile che non lascia spazio a dubbi o perplessità. La perplessità nasce allorquando le tre parole si ascoltano, si pronunciano, circolano in ambienti, specifici e non, frequentati dalle famiglie di persone con disabilità, in particolare da coloro i quali, in gergo definiti caregiver, si occupano quasi sempre da soli e per molti anni dei figli con scarsa o nulla autonomia – o come stabilisce la legge – “incapaci di compiere gli atti della vita quotidiana”. Un popolo di persone invisibili spesso al vicino della porta accanto, che attraversa il tempo e le stagioni, lottando contro i mulini a vento nella ricerca di un possibile recupero o almeno in una diminuzione del danno. E nel mentre scorrono gli anni, si cerca nelle maglie di un territorio poco attento alle problematiche dei disabili e purtroppo ancora non adeguatamente attrezzato, luoghi e spazi di accoglienza, di incontro, di attenzione ai bisogni ed alle necessità del proprio nucleo familiare che inesorabilmente richiede più cura. Il “dopo di noi” ciò che non si osava nemmeno pensare da giovani, quando ancora si nutrivano speranze nell’intervento delle istituzioni, diventa allora una sorta di ritornello durante gli incontri di auto mutuo aiuto che qualche solerte associazione organizza con il supporto di una figura professionale, in genere uno psicologo; incontri che sicuramente hanno una loro valenza, ma che in sostanza non cambiano i fatti e cioè: “chi si occuperà di mio figlio dopo…”

Parole non lievi, non leggere bensì pesanti come macigni, cariche di sofferenza, del dolore di chi non ha più tanto tempo, di chi suo malgrado, in assenza di fratelli o sorelle a cui affidare il pesante fardello, dovrà ricorrere alla soluzione più estrema l’istituzionalizzazione. E mi chiedo: “esistono nel nostro territorio strutture adeguate, non al ricovero, bensì alla cura di persone fragili, che hanno seguito per anni percorsi di abilitazione, mai abbandonate a se stesse, circondate da cure e affetto, esistono strutture con educatori che sappiano coniugare la propria professionalità con il garbo, la gentilezza, il sorriso, l’amorevolezza.

Ed allora non mi appare peregrina e mostruosa quella soluzione che ogni tanto qualche genitore più disperato di un altro sussurra fra le pieghe di una conversazione a volte inconcludente: se il padreterno mi facesse la grazia! Quale grazia? Non voglio e non oso pensarci, ma vi assicuro che ognuno di noi almeno una volta preso dall’angoscia abbia accarezzato questa ipotesi e purtroppo qualcuno, come ogni tanto si sente dai media, raggiunge lo scopo.

E poi c’è ancora un altro “ dopo di noi”, quello di tante persone anziane, rimaste sole o che forse sole lo sono state da sempre, che hanno vissuto tutta una vita senza familiari, senza figli, senza amici  cui affidare le proprie pene, i propri ricordi,  o magari coloro i quali non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, chi non ha una casa, chi ha deciso di trascorrere il proprio tempo per la strada, chi è stato abbandonato dai parenti, chi vive grazie all’amore  di un animale domestico, chi trova conforto solo nella preghiera. Una moltitudine, una folla sconosciuta o per meglio dire che non vogliamo conoscere, che è molto più semplice ignorare. Cosa ne sarà di tutti costoro? Chi si prenderà cura dei loro affanni? Quale sarà il loro “dopo di noi”.

Lascio ad ogni lettore l’incombenza. di trovare una risposta nella consapevolezza della difficoltà del compito.

Rosalba Rizza – Pedagogista