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Talvolta, nel corso della vita, ci autocostruiamo dei “ponti mentali” attraverso i quali giungiamo, idealmente su una – vera o presunta – altra sponda, quella sulla quale ci “accomodiamo” per stare meglio scegliendola come rifugio di un più o meno grave stato di malessere.

Detti ponti mentali hanno, però, natura mobile e sono facoltativi: scegliamo, cioè, di costruirceli “al bisogno”. 

L’unico ponte, invece, che non possiamo omettere di attraversare è quello che varchiamo solo per la circostanza di essere vivi. E’ quello che unisce l’evento nascita al suo perfetto speculare, ossia all’evento morte e che equipariamo, quindi, alla Vita.

Questa, nella sua spettacolare complessità, rappresenta l’unica impalcatura esistenziale a campata unica (campata, termine di ingegneria civile ma, sicuramente quello etimologicamente più adatto alla tematica dell’esistenza umana) che necessariamente dobbiamo attraversare se non altro perchè ci è stata donata. Il ponte rappresenta pertanto il bene da tutelare, da curare affinchè il suo attraversamento avvenga nella massima serenità possibile. Non siamo noi operatori delle Cure Palliative, ben si intenda, gli ingegneri progettisti di questo ponte chiamato vita ma coloro ai quali è affidato il compito di gestire la viabilità del suo ultimo tratto.

Spesso, infatti, il tragitto si fa tortuoso e le insidie della malattia si presentano con tutta la loro virulenza a carico del malato: non esistono malattie se non ci sono uomini e donne che le vivono, caricate del loro peso che spesso dura anni. Non possiamo considerare la malattia fuori dalla persona cui inerisce e dal suo contesto affettivo e simbolico.

La malattia coinvolge tutta la persona, la sua identità complessa di essere mentale, spirituale, corporeo, emotivo, sociale.

Il dolore, conseguenza diretta della malattia, è un’esperienza globale nella quale vibrano tutte le dimensioni della persona ed ognuna si travasa e si confonde nell’altra permeandone il tutto, specie quando diventa smisurato e si impadronisce dell’anima oltre che del corpo.

Il dolore ha quindi due sfaccettature complementari che non si escludono e che, anzi, si alimentano reciprocamente: il dolore emotivo si incontra con il dolore fisiologico proprio come accade a due correnti marine che si contrappongono immergendosi l’una nell’altra.

La sofferenza dev’essere raccontata e quindi ascoltata e spetta a noi operatori delle C.P., con la massima umanità e con la competenza che ci appartiene, decifrare le parole o i tumultuosi silenzi con cui la persona esprime il suo stare male per restituire valore all’esperienza del suo dolore dosando, non solo tecnicamente ma anche eticamente, i rimedi possibili per aiutarla a trovare la propria dignità anche nel morire. Il dolore nei suoi aspetti fisici è la maggiore causa di sofferenza ma, nella sua globalità, se perdura nel tempo, diventa una malattia nella malattia che richiede di essere rimossa a costo della stessa vita.

Ogni singolo malato, sulla base della propria struttura di personalità percepirà il dolore in maniera del tutto diversa da ogni altro: è nel dolore che si esplica il proprio rapporto con il benessere e, quindi con la vita. Ciò accade sia quando ci si trova dinanzi a forme di dolore transitorio espressione di una patologia guaribile, sia, a maggior ragione, quando il dolore è espressione di una patologia sì curabile ma non guaribile ovvero quando il dolore altro non è che l’anticamera temporale e biologica della morte. 

Compito arduo il nostro: edificare benessere su fondamenta di sofferenza, costruire laddove la malattia sicuramente porterà a termine la sua drammatica azione distruttrice.

Come si fa, dunque, a costruire il benessere del malato nella sua stessa sofferenza? Come si fa ad adempiere alla delicatissima mission dell’alleviare, del sollevare, del palliare per restituire al malato il suo naturale e dignitoso processo del morire senza mai dimenticare di operare solo quelle scelte cliniche che risulteranno utili al benessere del sofferente scartando tutto ciò che, invece, sarebbe inefficace o, addirittura, dannoso per il morente?

La risposta è che ciò è possibile grazie a quell’indissolubile connubio tra Etica e Scienza, tra umanità e competenze cliniche che caratterizzano il mandato professionale cui noi operatori delle cure palliative siamo responsabilmente chiamati.

Equipe Giomi Sant’Andrea Hospice